Lettera aperta a...Pindemonte 

Tratto dal libro "Le Grandi Verità" - Edizioni Mediterranee


Il caso non può esistere

 Anche se si ammette il determinismo, che è negazione dell'esistenza di Dio, per coerenza logica si deve escludere il caso. Se tutto è infatti una rigida concatenazione di cause, nulla è lasciato alla casualità, all'evenienza fortuita; né il caso può essere all'origine della serie delle cause, dico io, sempre per coerenza logica; quindi il determinista, suo malgrado, crede in Dio.

 Se poi si ammette l'esistenza di Dio, può esistere il caso? o quello che si chiama caso, e che come tale dovrebbe essere prova dell'inesistenza di Dio, non è piuttosto e proprio per la sua singolarità motivo dl riflessione, di convinzione che qualcosa di superiore guida le sorti degli uomini? Se si ammette l'esistenza di un Ente Supremo, anche nella sua accezione più antropomorfa, si può ammettere che vi sia " qualcosa " che possa avvenire fortuitamente al di fuori della Sua conoscenza?, "qualcosa " che sfugga alla Sua volontà e al Suo controllo e che Egli non utilizzi per i Suoi provvidenziali fini? Certamente no, perché, se così fosse, quel "qualcosa " sarebbe, esso, Dio!        

 Sicché, se il caso è previsto e utilizzato nel divino programma, non è più caso. Chi crede, in Dio non può credere al caso. E allora? Il caso non può esistere, tanto che si creda la realtà una rigida concatenazione di cause priva di ogni finalità e trascendenza, quanto che si creda la vita Manifestazione Divina.

 Ma allora, quegli eventi che non sono conseguenza di scelte o  effetto di situazioni cercate; che capitano improvvisi a mutare anche radicalmente la vita; se non possono essere fortuite coincidenze, dato che il caso non può esistere, come si debbono considerare? Evidentemente in modo diametralmente opposto, cioè  punti fissi dell'esistenza dell'uomo, passaggi obbligati. Quello che a taluno può sembrare circostanza casuale è invece un ineluttabile appuntamento. E se è vero, come è vero, che tutto ha una causa, anche quegli avvenimenti che non trovano causa nei comportamenti immediatamente precedenti o volutamente promossi hanno una causa evidentemente più remota; furono promossi in un tempo non raggiungibile dalla memoria: non sono karma, ma fanno parte del karma. 

 

La dinamica del karma

 Come è di moda questo termine in Occidente! E come si usa a sproposito! Il karma è sinonimo di destino, di punizione, di prova; mentre, in effetti, il karma è attività: è né più né meno che un effetto, parte di quella catena di cause, tanto cara ai deterministi, che muove la vita degli esseri.    

 Karma quindi è tutto: non è solo l'evento eccezionale che muta inaspettatamente e involontariamente la vita. Karma è il mal di pancia del goloso, è la muscolatura dell'atleta allenato, è il biondo dei capelli che la signora si è decolorati, è il germoglio del seme seminato nel terreno fertile, e via e via.    

Il karma non è destino, se con ciò s'intende qualcosa che accade senza spiegazione e senza volizione; non è punizione perché, in sé, non è né buono né cattivo, ma della stessa natura della causa di cui è effetto. A conferma di ciò cito l'affermazione dei naturalisti secondo cui la vita della natura è incomprensibile se non si ammette il principio di  causalità, cioè se non si postula che mantenendo, modificando, sopprimendo la causa, si modifica, si mantiene, si sopprime l'effetto.

Il karma non è prova; semmai è insegnamento, perché completa l'esperienza promossa, e, dall'esperienza, si impara. 

 

Il karma e la coscienza

Dicendo che karma è attività, azione, si può erroneamente credere che riguardi solamente la materia, il piano fisico. Ho detto prima che esiste una catena di cause e di effetti per ogni mondo e quindi per ogni tipo di attività dell'uomo: per quella fisica, per quella di sensazione, per quella pensativa e così via. Quel « così via « sta per mondo del sentire, per coscienza dell'uomo, vero bersaglio e fonte del karma, perché è qui che si ripercuotono, si incidono le esperienze, è da qui, dalla sua eventuale carenza o ricchezza, che l'uomo indirizza se stesso verso certe esperienze od altre.

 Il karma, quindi, è solo una situazione esteriore nella misura in cui essa serve a produrre quel fermento interiore che dona comprensione e, quindi, coscienza. E' logico che sia così. Ogni attività non è mai solo di un mondo: per esempio l'azione fisica è preceduta, accompagnata, seguita da sensazioni e pensieri, ed è promossa o permessa dal sentire, dalla coscienza dell'uomo, perciò l'effetto deve essere globale, andando poi a colpire il fulcro dell'individuo, quello da cui ha origine il mondo di essere, il vero responsabile dell'attività individuale.

Tutto avviene in modo molto semplice nella dinamica, anche se, nel dettaglio, il karma è stato assimilato ad una corda formata da moltissimi fili.    

Supponiamo che Tizio sia avaro. Intanto, lo è perché la sua coscienza non è costituita a tal punto da impedirgli di esserlo. Dico così genericamente perché le ragioni dell'avarizia possono essere molte: per esempio bisogno di accumulare per ricercare la sicurezza, mancanza di generosità nei confronti degli altri, e via e via. Comunque tutte le ragioni si annullano in un anelito di altruismo: infatti, il fine è questo, che l'insieme delle esperienze, dei karma, insegnano. 

 Il nostro avaro penserà da avaro, desidererà da avaro, agirà da avaro, cioè alimenterà una catena di cause in cui ogni genere di attività umana è improntata all'avarizia: attività fisica, di sensazione, di pensiero. L'effetto delle sue attività non poteva che ripercuotersi a livello fisico, astrale e mentale. In che modo si ripercuoterà? Qui, per rispondere, si deve conoscere la ragione dell'avarizia, al di là della mancanza di altruismo. Supponiamo che sia non voler dare agli altri, desiderare di accumulare per essere più degli altri. Le cause mosse lo porteranno, come effetto, in situazioni da cui capirà che non serve avere un desiderio smodato di beni e di ricchezze. Tale comprensione scaturirà, per esempio, dal vivere in una successiva vita una situazione in cui egli vivrà l'avarizia di un suo simile e ne sarà la vittima. 

A quel punto egli ha imparato a non essere avaro ma non ha superato il desiderio di essere più degli altri. Di conseguenza avrà un'altra vita in cui, per esempio, crederà di raggiungere la considerazione e la valutazione altrui essendo prodigo. E così via. Ecco la catena deterministica delle cause di cui quello che si chiama karma fa parte. Ma tutto è karma.    

 Molti credono che il karma si provochi facendo una scelta errata, consci però di errare, e che solo allora si muova la causa che richiamerà l'effetto doloroso. Una tale visione sarebbe giusta se il dolore fosse punizione, ma così non è: il fine del karma è di dare quella coscienza la cui mancanza fa essere l'individuo in modo non armonico alla realtà di unione del Tutto. Siccome la mancanza c'è tanto che uno ne sia consapevole quanto che non lo sia - anzi, semmai chi non ne è consapevole è ancora più carente - è chiaro che non ha nessuna importanza, agli effetti del karma, che lo si sia chiamato consapevolmente o meno.    

 Gli aspetti principali della legge di causa-effetto si possono riassumere come segue:

 1. Ogni attività promossa o indotta o liberamente avviata reca con sé un effetto.

2. Tale principio vale per il mondo fisico, per quello delle sensazioni, per quello del pensiero; insomma per ogni mondo e per ogni categoria di fenomeni.

3. L'effetto è della stessa natura della causa ed  è strettamente legato ad essa.

4. Si creano cause tanto volontariamente quanto involontariamente, perché l'accadere dell'effetto non è subordinato alla consapevole consumazione della causa.

5. L'effetto ricade su chi ha mosso la causa.

6. L'effetto ricade col fine di dare coscienza al soggetto che lo promosse.

7. L'effetto ricade quando il soggetto è pronto a comprendere, cioè quando il soggetto, dall'effetto, trova la coscienza che gli mancava.

 

La catena e il riscatto

 La catena di cause e di effetti che muovono e promuovono la vita degli individui si incrociano ed hanno continue ricorrenti connessioni. Non può essere diversamente: se tutto è Uno deve esistere una stretta dipendenza fra i soggetti. Come prima ho detto, non c'è una sola particella elementare che sia assolutamente isolata. Qualunque cosa ha un rapporto di dipendenza con qualcos'altro. Se esistesse, per assurda ipotesi, qualcosa che fosse assolutamente indipendente, sarebbe fuori della realtà. Perciò nessuno può essere fuori dalla catena di cause e di effetti, di dipendenze, che lega tutto quanto esiste.

E se si dice che tutto è karma, lo si dice perché appunto karma è la catena di cause e di effetti che lega il Tutto. Nessuno può sottrarsi al karma.  

 Certo, c'è karma e karma, ma soprattutto c'è la possibilità di compiere quei salti di qualità nella catena di cause e di effetti di cui prima parlavo. Compiere salti di qualità costituisce la libertà, l'autonomia dell'individuo.

Ora, siccome la libertà è la possibilità di agire in modo contrario a quello a cui condurrebbe una catena di cause e di effetti; e siccome è la coscienza costituita che dà all'individuo lo facoltà di sottrarsi agli impulsi dei suoi veicoli inferiori (egoismo, passioni e via dicendo) e conseguentemente agli timoli ambientali; e siccome la coscienza si costituisce quanto più si evolve e viceversa; è chiaro che la libertà è proporzionale all'evoluzione.

 Ma badate bene: l'evoluto non è fuori da ogni catena di cause e di effetti perché sarebbe fuori dalla Realtà. Egli compie salti di qualità; cioè per la sua coscienza sente in modo che gli consente di non essere trascinato inesorabilmente dalla necessità; che gli permette di vivere in modo sereno ciò che, per altri, è fonte di angoscia; che non gli fa creare ombre torturatrici e che non gli fa muovere cause che portano effetti dolorosi. Tuttavia questo non significa che l'evoluto non senta, per esempio, la stanchezza quale effetto di una causa da lui promossa. Quella stanchezza la vivrà in modo diverso dall'inevoluto non ne sarà condizionato, saprà come smaltirla brevemente, ma non potrà non avvertirla.

 Il karma - o quello che si intende con questa parola - cioè una condizione limitante simile per più persone, è vissuto in modo diverso anche se presenta la stessa impostazione. Una cecità, per esempio, può essere vissuta serenamente o angosciosamente. In modo analogo, fra più persone fare una stessa cosa può dar luogo a karma diversi. Ed è logico che sia così: infatti il vero bersaglio e la vera fonte del karma, come ho detto, è la coscienza individuale; quindi è il sentire, l'intenzione, che pilota tutta l'attività dell'individuo, ed è quello che deve essere corretto e che quindi è oggetto dell'effetto correttore.     

 Se la natura, il contenuto dell'effetto, fossero analoghi solo a quella che è stata la manifestazione esteriore dell'individuo agente, l'effetto non farebbe quasi mai centro perché quante azioni nascondono intenzioni opposte a quelle che possono trasparire. Una condotta altruistica che nasconda un fine egoistico non può recare un effetto eguale a quella condotta per intenzione. Infatti l'effetto non è un premio o un castigo, è qualcosa che tende a correggere all'origine la natura di chi muove le cause, cioè dell'essere, e quindi a mutare l'intenzione.       

 Pensate un po', per giungere a ciò, di quanti fattori deve tener conto il karma! Eppure tutto si attua mirabilmente.

Non c'è nessuno che tiene registri di dare e di avere ma, per il principio di causa-effetto, la concatenazione in qualche modo intuita dai deterministi è garanzia che niente cade a vuoto, che tutto si tramanda, che tutto ritorna come immagine riflessa di se stessi, perché si prenda cognizione delle proprie deficienze, e si colmino.

La concezione della Realtà in cui niente avviene casualmente ed ognuno ha ciò che gli spetta per esserselo procurato, toglie ogni frustrazione che deriva dal sentirsi perseguitati, sfortunati, oggetto di ingiustizia. Quanto ognuno patisce corrisponde ad una misura di giustizia che non lascia margini a privilegi ed errori, dove la sofferenza è solo un momento transitorio in cambio di una perenne acquisizione.   

 La possibilità dell'uomo di sottrarsi a influenze e impulsi, allorquando è capace di compiere un salto di qualità, gli conferisce quella autonomia che lo riscatta dalla rigida tutela a cui sono sottoposti gli esseri con una coscienza elementare. Guardandosi attorno si può verificare tutto ciò e crederlo senza dover compiere atti di fede, senza forzature, con il solo strumento del raziocinio. A quel punto  non si può che riflettere ed esclamare, rivolgendosi a quell'Ente inafferrabile che pure deve esistere e che, se esiste, non può che essere la vera ragione del tutto:

 "Signore, la logica mi fa concludere che il caso non può esistere e che una catena di cause e di effetti mi indirizza nel mio vivere, pur consentendomi quella libertà che è ignota agli esseri dalla coscienza in potenza.

 Signore, posso riconoscere il fine immediato della vita naturale, che è quello di perpetuare se stessa; perciò ragionevolmente posso credere che tutto ciò abbia un fine più ampio che sfugge alla mia constatazione.

 Se Tu sei capace di trasformare la materia insensibile nella coscienza del santo, allora, Signore, Tu sei amore, e benché non abbia la percezione di quanto Tu sei, umilmente Ti ringrazio con tutto l'amore di cui sono capace e che Tu, giorno per giorno, istante per istante, alimenti, alimentando la mia stessa esistenza.

 Signore, fa che il Tuo amore riunisca tutti noi, Tuoi esseri, e che non venga mai meno; ma anzi sia sempre in noi, giorno per giorno, istante per istante, perché così Ti conosceremo e nulla più, ci sarà oscuro."

                                                                                                                                                                                      KEMPIS                                                                                                                                               

 

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