Ci sono dei pensatori
che tentano di spiegare la realtà con gli elementi che hanno
a disposizione, o meglio con le idee che la loro visione
parziale suggerisce. Ne risultano teorie non solo
antropomorfiche ma che nemmeno sono l'espressione della
possibilità dell'uomo di pensare in termini generali.
Uno di questi esempi è
dato dall'affermazione che il destino dell'uomo, quale
essere spirituale, lo assoggetta ad un divenire senza fine.
L'essere spirituale continuerebbe in eterno un processo di
acquisizione.
Tutto questo, poi, non
prevederebbe un abbandono della Terra in senso ultra-fisico;
cioè la Terra, sì, sarebbe abbandonata, ma l'essere
continuerebbe, in altre dimensioni spirituali, una vita di
relazione basata sulla percezione, sulla sembianza della
realtà. L'essere spirituale sarebbe un uomo divinizzato,
idealizzato, e nulla più.
E' chiaro che una
simile affermazione deriva dall'incapacità di trascendere la
propria condizione umana per accedere anche solo a quella
intuizione di cui certi uomini si servono per scrivere dei
racconti di fantasia. Pensare che il destino dell'essere
spirituale lo releghi in una condizione in fondo
antropomorfa, significa non solo non intuire la realtà ma
addirittura difettare di immaginazione.
Certo, io non sono qua
a raccontarvi cose immaginarie, però se per farvi capire
quello che voglio dire devo fare appello alla vostra
fantasia, ebbene considerate pure quello che dico una
favola, ma comprendete!
La difficoltà maggiore
a capire il destino, la futura condizione di esistenza
dell'essere spirituale, è data dal non riuscire a immaginare
come egli trascorra la sua esistenza, che cosa faccia. Se
poi, come noi facciamo, si afferma che l'essere,
sperimentata, per manifestarla, una coscienza relativa, si
identifica nella coscienza assoluta nella quale è abbattuta
ogni separazione, ogni limitazione, ogni successione, e gode
della plenitudine assoluta, spesso si sente chiedere: e
poi?, proprio quale involontaria dimostrazione della
incapacità di superare il modo umano di concepire la realtà.
Si può parlare di un « poi» in un simile stato di coscienza?
Un «poi» e un « dove « derivano da una condizione di
esistenza limitata in senso spaziale e in senso temporale;
da una abitudine a percepire la realtà in successione e in
separazione.
Ora, invece, per
avvicinarsi a capire un simile stato di coscienza, bisogna
riuscire a immaginare uno stato di superamento della
separatività, cioè una coscienza che abbraccia tutto quanto
esiste, perciò un superamento dell'io e del non io e quindi
il superamento del modo di percepire basato sulla
separatività.
Non solo: tutto ciò,
pur dando l'idea di una coscienza che non conosce limiti in
senso spaziale, non dà ancora l'idea di un superamento dei
limiti in senso temporale, che invece c'è nella coscienza
assoluta. Se tutto quanto esiste mutasse nel tempo, una
coscienza che abbracciasse tutto quanto esiste solo in senso
di estensione, di quantità, sarebbe pur sempre limitata in
senso di successione temporale, perciò non sarebbe ancora
assoluta. Mentre, per essere tale, la coscienza deve
comprendere anche le mutazioni.
Che cosa sono le
mutazioni? Realtà diverse. Che cos'è l'io o un essere? La
coscienza limitata ad una parte, o, più precisamente,
sentire la realtà in termini di parte. Che cos'è un essere
rispetto ad un altro? Un modo diverso di sentire la realtà
in termini di parte. E che cos'è un io, una coscienza, un
essere, nella successione? Ancora un modo diverso di sentire
la realtà in termini di parte. Non fa differenza: sono tutte
realtà diverse. La definizione della differenza dei sentire
di un momento, appartenenti ad esseri diversi, calza, è la
stessa, per la differenza di sentire di momenti diversi
appartenenti ad uno stesso essere. Si tratta di modi diversi
di sentire la realtà in termini di parte.
Allora, che cosa sono
gli esseri?
Se il mio sentire di
ora è diverso dal vostro di ora allo stesso modo di come è
diverso dal mio sentire di un altro momento, che cosa è che
mi fa dire « il mio sentire «? Certo il fatto che io l'ho
vissuto. E che cosa è che mi fa dire « io l'ho vissuto «?
Certo la memoria, ossia la capacità di conservare in sé,
per poter evocare, immagini di cose viste, suoni uditi,
sentimenti, stati d'animo provati, idee acquisite. Ma
altrettanto certo è che il ricordo, per quanto vivo possa
essere, è un'ombra, uno spettro; non è la realtà; non è
tornare a vivere l'esperienza.
Il ricordo è memoria
di un presente che fu. E quel che fu, per avere una esatta
collocazione cronologica, deve essere riferito nella memoria
a fatti certamente datati; altrimenti non è collocabile,
altrimenti è un « non ora « che non si distingue da tutti
gli altri « non ora « che la memoria riesce a ricordare.
Questo perché la coscienza è sempre al presente.
Una coscienza che sia
al tempo passato o futuro è inconcepibile: passato o futuro
rispetto a che cosa? Al proprio essere. Ma siccome la
coscienza è l'essere, è assurdo per misurare la propria
distanza, separazione, disidentificazione, eccentricità,
prendere quale punto di riferimento se stessi: il valore
sarà sempre zero. Perciò la coscienza è sempre al presente,
sicché il proprio essere è sempre solo quello del momento
presente. Ogni momento siamo un essere diverso e, infine,
quale reale condizione di esistenza, siamo un essere totale.
Sicché il mio sentire
che fu, non mi appartiene più di quanto non mi appartenga
il sentire di un mio simile. Difatti, se perdessi la
memoria, in forza di quale altra facoltà potrei dare la
paternità ad un sentire? Certamente nessuna. D'altra parte,
la memoria non è determinante nell'esistenza del sentire.
Se si togliesse la
facoltà di ricordare, non cesserebbe il sentire: non si
avrebbe più cognizione del tempo, si avrebbe cognizione che
l'esistenza, la coscienza, è un continuo presente.
Il sentire di ogni
istante - o meglio innumerevoli sentire che creano gli
istanti - sono completi in se stessi; ciascuno afferma,
manifesta una realtà. Sicché quel tenue e lacunoso filo che
è la memoria, su cui si intreccia ogni rapporto con gli
altri; che ci ricorda chi sono, che cosa ci debbono, cosa
possiamo pretendere; che volutamente si smarrisce quando ci
torna utile fingere di averlo smarrito; quel filo senza del
quale non sappiamo chi siamo; qual è il nostro nome, e su
cui fondiamo tutta la nostra vita di uomini, se si
spezzasse, pur così determinante, non ci toglierebbe la cosa
più importante del nostro esistere che si identifica con
l'esistenza stessa: il sentirsi vivi, la coscienza di
esistere.
Ma pure, questo
sentire di istanti è legato in una catena, non solo per
effetto di quel fragile ed evanescente filo che è la
memoria; al di là di ciò che possiamo ricordare e del potere
condizionante del ricordo, gli innumerevoli sentire con la
memoria creano gli istanti si chiamano, si susseguono, si
legano in virtù di qualcosa che non può essere apparente e
caduco perché è la forza di coesione che crea l'essere, che
fa di tante parti un sol tutto. Che cos'è che tiene uniti
gli atomi della materia se non una forza che promana
dall'atomo stesso?
In modo analogo, la
forza che unisce gli atomi di sentire che compongono la
coscienza, scaturisce dalla natura stessa del sentire. E
dalla natura stessa del sentire dipende l'ordine secondo il
quale i sentire sono uniti, e quindi la successione secondo
cui si manifestano; o meglio, sembrano manifestarsi in
quella successione perché, in quell'ordine, sono
concatenati.
Dalla natura stessa
del sentire relativo nasce l'ordine secondo cui esso è
disposto e quindi secondo cui è disposto tutto quanto
esiste: infatti le situazioni del mondo fisico, emotivo e
intellettivo sono strettamente unite ad un relativo sentire,
tanto che all'apparenza è impossibile dire se siano quelle
situazioni ad essere come sono perché discendono da quel
sentire, oppure se il sentire è quello che è in conseguenza
di come sono le situazioni fisiche, emotive e mentali.
In effetti c'è un
legame secondo il quale le coscienze del momento, i sentire,
si legano, ed è il legame logico.
Paragoniamo il sentire
iniziale di coscienza di una incarnazione ad una equazione
impostata: i sentire successivi, quelli in senso lato,
logicamente legati all'iniziale, sono rappresentati dai vari
passaggi che conducono alla soluzione dell'equazione. La
soluzione rappresenta la caduta di una limitazione del
sentire e l'ampliamento della coscienza.
Lo stesso legame
logico esiste fra l'impostazione di una equazione e
l'impostazione delle equazioni successive. Ne risulta un
sistema di equazioni in cui tante sono le incognite quante
le equazioni, perciò un sistema risolvibile. Ossia tutte le
limitazioni cadono, tutte le incognite sono conosciute.
Un'altra domanda che
frequentemente viene fatta è "che necessità ci sia che ogni
essere nasca da Dio e a Dio ritorni, cioè che compia tutta
una trafila così complessa e, in fondo, faticosa". Prima di
rispondere non si può fare a meno di dire che se la faticosa
trafila è il prezzo per dare all'essere la coscienza
assoluta, è molto più quello che si ha di quello che si
paga.
Tuttavia una simile
domanda è frutto di una errata concezione della realtà
perché non tiene conto del fatto che al di là di ciò che
appare, nella successione e nella separazione - cioè
nell'illusorio divenire - nessuno si stacca da Dio o a Dio
ritorna o giunge: tutto è sempre in Lui.
Se mai la domanda
giusta è « che funzione hanno gli esseri nell'esistenza
divina «, e, più giusta ancora, « qual è la funzione della
coscienza del sentire relativo, nella coscienza assoluta «.
Rispondo che la coscienza assoluta è una nel senso di unica
e unitaria, però non nel senso di avente una sola qualità,
anzi in questo senso è molteplice e poliedrica. L'Unità è
realizzata con la comunione degli elementi, cioè in uno
stato di esistenza in cui, per esempio, la vita che un uomo
vive in successione è sentita simultaneamente nel non
tempo, ossia in qualcosa che non ha né prima né dopo, né
perciò durata, ed è sentita simultaneamente alla vita di
tutti gli esseri.
Tutto questo non
significa che la coscienza assoluta sia uno stato d'essere
frazionario, di confusione, nel quale tutto
si accavalli e
confonda. Già la coscienza umana - che pure è relativa - è
unitaria. Ogni momento del sentire che origina gli esseri, è
presente nella coscienza assoluta identicamente a come gli
esseri lo sentono.
Non potrebbe essere
diversamente da così, dato che il sentire che origina gli
esseri è lo stesso sentire contenuto nella coscienza
assoluta. Non è uno identico, è lo stesso. Se tale sentire
non esistesse nella coscienza assoluta non esisterebbero né
gli esseri, né la coscienza assoluta.
Dunque l'esistenza
degli esseri appartiene all'esistenza di Dio e la ragione
della loro esistenza risiede nella completezza,
nell'assolutezza della Realtà divina. Il sentire di
coscienza che ciascun essere manifesta è un elemento
costituente della coscienza assoluta, dove esiste in un
eterno presente, al di là dell'illusorio manifestarsi in
successione temporale. Ciascun sentire è un momento, un
elemento dell'essere relativo, come ciascun essere è un
elemento dell'organico Essere assoluto.
Questa concezione
della Realtà esistente, rendendo partecipe della Divinità
tutto quanto esiste, spiega come niente e nessuno possa
essere considerato reietto, escluso, perduto. Tuttavia,
mentre conforta con la certezza che nessuno può perdersi
definitivamente - anzi ognuno è destinato fatalmente alla
massima gloria dell'esistenza assoluta - può indurre a
credere che non abbia alcun valore cercare di mutare gli
avvenimenti, migliorare le situazioni e le persone essendo
già tutto esistente al di là del tempo e della volontà
dell'uomo.
Una simile errata
conclusione è evitata tenendo presente che, siccome tutto
quanto è percepito da ciascun essere, costituisce uno
stimolo alla sua evoluzione, alla costituzione e rivelazione
della sua coscienza - ed anche se la percezione è comune a
più esseri rappresenta per ciascuno un'esperienza personale
- ne risulta che tutto quanto esiste è come se esistesse
solo ed esclusivamente per ciascun essere, solo per la
costituzione-rivelazione della sua coscienza, come se
ciascun essere fosse al centro di uno spettacolo vitale
concepito solo per lui ed egli fosse l'unico essere ad
esistere. Mentre, in realtà, innumerevoli sono gli esseri,
pure essendo ciascuno unico e irripetibile. Perciò ciascun
essere - essendo come se fosse l'unico ad esistere - è come
se fosse l'unico a partecipare, manifestare, far esistere la
coscienza assoluta.
Allo stesso modo
siccome la realtà colta da ciascun essere è percepita in
successione, in divenire, è come se la realtà fosse tale,
cioè stesse ora sviluppandosi, prendendo corpo, mentre in
effetti la Realtà esiste già nella sua completezza. Tuttavia
non potrebbe esistere se non si manifestasse così come
ciascun essere la percepisce e la manifesta. Perciò nel
momento in cui il sentire è sentito è come se fosse il
momento in cui prende esistenza; da qui l'importanza della
propria esistenza e della propria volontà.
Ciononostante, per la
vostra mentalità di uomini inseriti in una realtà di
apparente divenire, in cui impera il principio di causa e
d'effetto differito, resta difficile capire che senso abbia,
per esempio, aiutare un vostro simile se egli, per la legge
karmica, non abbia via di uscita; oppure lottare per far
volgere gli eventi in un certo modo quando, nel piano
divino, fossero stabiliti in modo diverso.
Una simile
incomprensione ha le sue radici in una coscienza della
realtà che è già molto se riesce a stimolare l'uomo ad agire
con la promessa di un risultato; una concezione della realtà
tutta esteriore; mentre in effetti quello che è considerato
mondo esterno è importante nella misura in cui si trasfonde
in esperienza interiore; sicché il dare o il fare non sono
tanto importanti per la riuscita quanto per il proposito,
quanto per l'intenzione del soggetto.
Guardiamo più nel
dettaglio l'articolazione di tale verità.
Esiste una storia
generale dell'umanità che è data dalla cronologia degli
eventi umani di carattere politico, sociale, economico,
religioso e via dicendo.
Tale storia è
immutabile, non può essere variata; in essa si intessono le
storie individuali, personali degli uomini. Storie
particolari, che possono avere - sia pure in misura limitata
- varianti.
Non si deve credere
che laddove la storia particolare può essere variata - cioè
laddove esiste una possibilità effettiva di scelta - tutto
sia lasciato nella nebbia dell'indefinito. Tutt'altro:
nell'Eterno Presente delle situazioni cosmiche esistono già
definite tutte le alternative alla scelta possibile. Se, ad
esempio, due sono le possibilità che la scelta offre, due
sono i rami della storia tracciati.
Quindi, non
indefinizione, ma doppia definizione.
Non si deve neppure
credere che la storia generale sia più importante delle
particolari; infatti da un certo punto di vista non è che la
risultante di quelle, perciò da quel punto di vista
sembrerebbe subordinata ad esse.
Ma così non è, tant'è
vero che la storia generale è costituita in funzione delle
storie particolari, ma non in dipendenza di quelle. Cioè la
storia generale è costituita in funzione delle esperienze
evolutive dei singoli individui e quindi in funzione delle
esperienze che essi debbono compiere; ossia non è l'uomo che
segue un destino già tracciato, è l'inverso: il tracciato è
quello che è per offrire all'uomo le esperienze che vuole e
che deve avere.
Tuttavia, laddove le
scelte individuali andrebbero ad influire nella storia
generale - cioè la storia generale diventerebbe dipendente
dalla particolare -, perché ciò non avvenga il problema è
risolto attraverso alla « variante «, alla doppia
definizione degli avvenimenti: l'una è quella che gli altri
vedono e che per loro costituisce un passaggio obbligato -
la storia generale -; l'altra è quella vissuta personalmente
quale frutto di una possibilità di scelta che si discosta da
quello che gli altri debbono necessariamente vedere e vivere
e che costituisce la libertà del singolo nella necessità
della collettività.
In altre parole,
allorché la scelta di un singolo si ingerisse nella vita
degli altri in modo contrario alla loro necessità evolutiva,
la scelta - attraverso ad una variante - sarebbe vissuta da
lui solo, proprio per evitare l'interferenza.
Supponiamo che un capo
di stato sia posto di fronte al dilemma di porre il suo
popolo in guerra o no. Chiaramente la guerra è un evento
generale e quindi invariabile, perciò se il capo di stato
avesse la libertà personale di sottrarsi alla guerra - cioè
la possibilità di non dichiararla per vivere in pace -, a
scelta operata lui solo vivrebbe la pace, mentre tutto il
suo popolo vivrebbe la guerra. L'esempio, ovviamente, è
radicalizzato, portato agli estremi limiti, paradossale;
però spero che se anche è irreale, serva a farvi capire la
realtà.
Già sento qualcuno di
voi concludere: « Se la guerra è un avvenimento
predestinato, è inutile pregare o manifestare perché non
avvenga «. Ed eccoci tornati al nocciolo del problema.
Secondo voi, che il
capo di stato firmi o non firmi la dichiarazione di guerra,
è lo stesso? Spero che riusciate a capire che se anche la
guerra deve scoppiare, è estremamente importante che il capo
di stato scelga la pace: l'atto investe la sua persona, la
sua intenzione e quindi la sua comprensione, la sua
evoluzione, la sua coscienza - che si tratta di avere o non
avere, che c'è o non c'è. Vi pare poco?
Certo, ai fini
collettivi la decisione del singolo non può mutare ciò che
gli altri debbono avere o non avere, ma al fine individuale
quanta importanza ha che si faccia o non si faccia una cosa
indipendentemente da quello che sarà il risultato!
Se pensate che sia
inutile cercare di aiutare i vostri simili perché comunque
voi facciate le cose andranno come è scritto che vadano, vi
dico che in ogni caso una cosa importantissima verrà a
mancare: quella per la quale tutto esiste e vive, per la
quale si succedono i giorni, le vite, le storie: la vostra
coscienza, quella coscienza che è la manifestazione di un
Dio nell'essere e in forza della quale esistiamo e per mezzo
di cui nulla, infine, può rimanerci estraneo, dandoci essa
la plenitudine assoluta.
Sicché, pregate o
manifestate per la pace; anche se non potete cambiare le
cose che non possono essere cambiate, potrete cambiare voi
stessi e con voi stessi il mondo, la realtà nella quale
vivete. Se anche il vostro operare altruistico non
raggiungerà lo scopo prefissato, voi, operando, vi porrete
dalla parte giusta. E questo vi pare poco o inutile?
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